di Rina Di Giorgio Cavaliere
Un rischio che corrono tutte le città è quello di espandersi in modo
caotico e disordinato. Ancor più quel fenomeno tipico del vecchio, come del
nuovo millennio, riferito alla rapida crescita di alcune immense città,
chiamate appunto megalopoli, con i conseguenti problemi di igiene,
approvvigionamento idrico e alimentare, sicurezza civile, traffico,
pianificazione di servizi. Città del Messico è divenuta nel 2010 con quasi nove
milioni di abitanti il simbolo negativo del gigantismo urbano: conseguente
centralizzazione di tutte le attività, proliferazione di bidonvilles e crescita
caotica dell’edilizia. Tokio, New York, Los Angeles appartengono ai Paesi con
alto reddito, ma per il 2025 ben 81 metropoli con più di cinque milioni di
abitanti saranno in Africa, Asia e America Latina; aree di consumo e di lavoro
poco produttive, che pesano sullo sviluppo complessivo della società.
Questi aspetti non certo trascurabili ai fini del benessere
dell’individuo, le forti disuguaglianze di crescita tra i paesi più ricchi e
quelli in via di sviluppo, determinano problemi da risolvere e interessi da
coltivare. Per meglio interpretare le esigenze della collettività e i suoi
principali e reali bisogni, cambia anche l’uso delle parole, che si squadernano
e si dilatano in molti significati, quando si ispessiscono della misura del
reale. Nel corso della storia contemporanea
il vocabolo felicità ha assunto differenti connotazioni; oggi la comune
coscienza linguistica, per il suo calcolo valoriale, prende in considerazione alcuni
fattori di riferimento fondati sulla qualità della vita: il Prodotto Interno
Lordo pro capite, la generosità degli abitanti, la serenità nel poter compiere
scelte di vita, l’aspettativa di vita, la percezione di corruzione all’interno
del paese, il supporto sociale. Secondo tali parametri il World Happiness
Report del 2021, nella classifica mondiale dei paesi più felici, colloca il
Nord Europa ai primi posti (Finlandia, Danimarca), al terzo la Svizzera, mentre
l’Italia si attesta nella parte inferiore della graduatoria. Le posizioni meno
prestigiose spettano all’Africa e all’India.
Curiosamente il Bhutan, piccolo stato himalayano, è stato il primo
paese al mondo ad adottare nel 1972 il Fil (indice di felicità interna lorda,
GNH in inglese) alternativo al Pil. Negli anni è verificabile un incremento di
indicatori alternativi, alcuni sostenuti dalla commissione
Stiglitz-Sen-Fitoussi istituita nel 2008 in Francia al fine di valutare il
benessere materiale in base ai redditi o consumi, oltre che sulla produzione:
distribuzione tra ricchi e poveri, attività non direttamente legate al mercato
(sanità, ambiente, educazione). Successivamente aggiornati, fino a superare il
numero di 30, contengono l’Indice di sviluppo umano (Hdi in inglese), quello
dell’impronta ecologica e l’italiano Bes, che misura il benessere equo
sostenibile.
Questi due anni di pandemia hanno ulteriormente modificato il Pil (nel
2021 si è attestato sul 6,5%) e, di conseguenza, i misuratori alternativi del
benessere (incluso il posto di lavoro e il settore immobiliare), per
stabilizzarsi in difesa della salute; non soltanto un bene personale e privato,
che prima di tutto noi come individui dobbiamo preoccuparci di mantenere, ma un
bene di tutti, della società. In un ordinamento democratico le libertà
individuali, anche se non fossero reclamate dai singoli a difesa dell’interesse
privato, apparirebbero come primordiale esigenza dell’interesse pubblico. A
conferma il recente report “The global wellness economy: looking beyond Covid”,
presentato a Boston dalla Global Wellness Institute (GWI), che raccoglie dati
sul segmento “benessere’ di tutto il mondo”, esamina i dieci comparti
dell’attuale economia del benessere al fine di condividere con i leader
internazionali l’impegno di aiutare le persone a vivere meglio e più a lungo. L’arte
dello stare bene con se stessi e con gli altri ci vedrà impegnati ancora per il
futuro nel dormire meglio, meditare, fare sport e turismo del benessere, sana
alimentazione, ritorno alla natura.

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