di Rina Di Giorgio Cavaliere
Il movimento ambientalista
nella sua evoluzione storica ha raccolto, con varie modalità di attuazione,
molteplici correnti di pensiero, prima di approdare all’attuale sciopero
globale in 150 Paesi. In Italia emerge negli anni sessanta e ottanta, quando
sorgono i problemi dell’energia nucleare e della tutela della salute.
Inizialmente si sviluppa nelle grandi città e raccoglie persone di cultura
medio alta, politicamente nell’area di sinistra. Oggi gruppi di diversa natura
e provenienza ideologica esprimono la necessità di costruire, manifestare e
diffondere un’unità di pensiero e di intenti, come nella recente manifestazione
ambientalista di quattro giorni contro i cambiamenti climatici, tenutasi a
Venezia da attivisti per l’ambiente, finalizzata al raggiungimento della
dichiarazione dello stato di emergenza climatica. Da rilevare che il Governo ha
allo studio la bozza del Decreto legge sul clima.
Si vive connessi in una
nuova conformazione socio-ambientale, eco-tecnologica; di conseguenza tutti
hanno seguito con apprensione le notizie sui numerosi incendi, che hanno
devastato la foresta pluviale africana, la vegetazione in Indonesia, Alaska,
Canada, Siberia, in particolare la foresta amazzonica, che si estende su otto
stati, principalmente Brasile (60%), Perù e Bolivia. Proprio la storia di
questo territorio può far comprendere quanto sia difficile rispettare la natura
e l’esistenza delle popolazioni indigene, vincere il desiderio di sfruttare al
massimo le risorse naturali ed evitare di distruggerle completamente; soprattutto
il faticoso cammino percorso dal processo di sensibilizzazione e di educazione nel
rapporto tra ecologia e individuo.
La costruzione della grande
arteria transamazzonica, inizialmente, è descritta da alcuni come una grande
conquista, dimostrazione della potenza dell’uomo, che sa lottare contro le
avverse forze della natura: «Nel bacino del Rio delle Amazzoni è iniziata una
nuova era che vede l’uomo impegnato nell’ultima grande sfida contro la natura.
L’esercito brasiliano e il capitale straniero (in prevalenza statunitense)
hanno sferrato su diversi fronti il più complesso e massiccio assalto della
storia al più grande e vergine ambiente naturale della terra» (M. Leigheb “Il
futuro si chiama Amazzonia” in Storia Illustrata, n. 205).
In seguito lo stesso studioso
è costretto ad affermare che la colonizzazione dell’Amazzonia rappresenta un
danno economico ed ecologico: «Per promuovere la colonizzazione, ogni 100 Km
saranno fondati dei campi di lavoro per operai, destinati a trasformarsi in
piccole città. Ma i contadini nordestini che immigrano in Amazzonia vengono ad
affrontarvi un ambiente difficile di cui non conoscono le risorse. Distruggono
rapidamente la foresta ai margini delle strade, abbattono alberi centenari e
bruciano legname pregiato, in terreni che poco si prestano alla coltivazione di
cereali e di prodotti agricoli in genere. Il suolo viene rapidamente
depauperato e l’ambiente sconvolto».
La strada transamazzonica si
è rivelata un fallimento anche se il governo brasiliano, che per questa ha
contratto negli anni settanta con gli Stati Uniti un debito enorme di 22
miliardi di dollari, ha continuato a esaltarla come una conquista. Il progetto
è stato abbandonato, poi ripreso nel 2006; la foresta ha ingoiato la strada in
molti punti, i coloni si sono trovati in preda a mille difficoltà. In tanti e
in settori differenti hanno protestato contro l’annientamento degli Indios,
cacciati sempre più lontano dalla costa, sfruttati da seringueiros e spesso sterminati per il possesso di alcune
centinaia di alberi di caucciù. Anche la Chiesa cattolica con i suoi vescovi ha
preso posizione nella contestazione alle politiche ambientali del governo
Bolsonaro; per ottobre in Vaticano è previsto il Sinodo sui temi della difesa
della foresta amazzonica.

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