Bari, 11 giugno 2012.
Su ordine di custodia cautelare, emesso dal GIP del Tribunale di Bari, nei confronti di 24 indagati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari considerati appartenenti alla “Società foggiana”, agenti della Squadra Mobile di Foggia, unitamente ai militari dello SCICO e dei Comandi Provinciali di Bari e Foggia della Guardia di Finanza, hanno provveduto all’arresto di 17 persone in carcere e sette ai domiciliari. Sono accusati di: associazione per delinquere finalizzata all’usura all’estorsione con l’aggravante del metodo mafioso; truffa ai danni dell’Unione Europea e illecito amministrativo. In modo particolare l’applicazione del Dl 231/2001 (che consente di colpire direttamente il patrimonio delle società e quindi gli interessi economici dei soci che hanno tratto vantaggio dalla commissione dei suddetti reati) gli inquirenti hanno disposto il sequestro di beni mobili ed immobili ad un’importante azienda vitivinicola in provincia di Ravenna (“Alla Grotta” srl), altri sequestri sono stati compiuti anche nel Foggiano e nel Nord-Italia, per un valore complessivo di oltre 20 milioni di euro.
I fatti:
Il 16 novembre del 2010 il boss indiscusso della mafia foggiana, Giosuè Rizzi, veniva scarcerato – avrebbe trovato la morte in un agguato avvenuto a Foggia agli inizi di quest’anno (gennaio 2012) –, la possibilità che ritornasse a prendere le redini dell’organizzazione mafiosa aveva spinto gli inquirenti e gli investigatori a monitorare i suoi movimenti. E’ da qui che nasce l’indagine che oggi ha portato in carcere alcuni degli esponenti più pericolosi della “Società foggiana” e che ha confermato la teoria degli investigatori del salto di qualità che la mafia di Capitanata ha compiuto nel campo degli affari, un’attività che consente all’associazione non solo di riciclare il denaro sporco derivante dalle estorsioni e dal traffico di droga, ma di infiltrarsi da attori principali (da veri e propri imprenditori) in uno dei settori economici italiani di maggiore espansione: quello vitivinicolo. Un settore nel quale gli esponenti della mafia foggiana riescono per così dire “a sfondare”, tanto da riuscire ad alterare il mercato nazionale della viticoltura italiana, il tutto grazie alla complicità di un imprenditore vitivinicolo ravennese, molto noto fra gli addetti ai lavori, Vincenzo Melandri, che a Russi di Romagna (in provincia di Ravenna) è proprietario di un grande e importante stabilimento che produce Mosto Concentrato Rettificato (uno zucchero d’uva che viene ricavato, appunto, dal mosto ed ha grande commercializzazione). Ma l’inchiesta non avrebbe potuto produrre i brillanti risultati ottenuti dalla Polizia e dalla Guardia di Finanza, coordinate dalla Dda di Bari, se non ci fosse stata la coraggiosa denuncia di un viticoltore foggiano che ha permesso di ricostruire l’intera filiera dell’attività delinquenziale. Il denunciante ha raccontato che dopo l’arresto del boss Rizzi era stato Cesare Antoniello – detto “il papa” – a prendere in mano le redini dell’organizzazione mafiosa, era lui che stabiliva sia i tassi di usura (che oscillavano dal 10 al 15 per cento mensili), che le tariffe estorsive da imporre a commercianti e imprenditori. L’uomo non solo ha denunciato di essere vittima di usura, ma ha fornito l’elemento chiave che ha permesso di arrivare a quello che sicuramente rappresenta, in questo momento, uno dei più grandi business della “Società foggiana”. Una mafia, quella foggiana, che al contrario di altre presenti sul territorio pugliese, è in grado di “federarsi” quando si tratta di fare affari: tanto che le alleanze tra i Francavilla, i Sinisi, i Prencipe, i Trisciuoglio, i Lanza e i Moretti sono tali da consentire sul territorio una ramificazione e diversificazione delle attività illecite che solo un’incisiva azione di contrasto della Squadra Stato riesce a sgominare. Non di poco conto sono anche le alleanze che questa “Società foggiana” riesce a instaurare con altre mafie: da quella Garganica dei Montanari (alcuni esponenti hanno garantito la latitanza del boss Franco li Bergolis) ai Casalesi con i quali erano in affari per stampare denaro falso e non è escluso anche per lo smaltimento illegale dei rifiuti. Insomma, una mafia - quella della Capitanata - che fiuta gli affari ed è pronta ad usare le leggi economiche e fiscali del mercato lecito per avvantaggiarsene. Come nel caso dell’operazione “Baccus”. Menti operative di questo affare Ernesto e suo figlio Mario Lops, ufficialmente imprenditori del settore vitivinicolo della Capitanata, di fatto organici all’organizzazione criminale. I due propongono alla Società foggiana un affare che i mafiosi colgono al volo: raccolgono tutti i soldi di provenienza illecita (usura, estorsioni, droga, ma anche quelli derivanti dai punti di raccolta delle scommesse on-line di Alessandro Carniola) e proprio in virtù della loro attività imprenditoriale entrano in contatto con il collega romagnolo al quale propongono un’operazione commerciale sofisticatissima sul piano fiscale. I Lops costituiscono finte società vitivinicole che emettono alla società “Alla Grotta” fatture per la vendita di mosto (senza Iva). In realtà alla società di Melandri non arrivava nessuna merce, ma soldi (quelli dell’importo delle fatture) con corrieri che partivano da Foggia in auto, a questo punto l’imprenditore romagnolo procedeva a pagare con bonifico le fatture maggiorate dell’Iva. In questo modo la mafia foggiana riciclava il denaro sporco e ne ricava l’importo dell’Iva, che su somme notevoli di denaro comportava ricavi considerevoli. Il Melandri a sua volta abbatteva fortemente i suoi ricavi dovendo registrare acquisti di mosto, non solo ma sui quali lucrava i contributi comunitari che in realtà non gli spettavano. Nel frattempo gli onesti operatori non riuscendo a convivere con una concorrenza illecita e “fuori dal prezzo del mercato” finivano a loro volta nelle mani dell’organizzazione criminale. Un sistema talmente collaudato che mai avrebbe potuto portare a simili risultati illeciti se non vi fosse stata anche la complicità di qualche funzionario di banca di Foggia, Ravenna e Corato che non hanno mai segnalato alle Autorità competenti le operazioni quanto meno sospette visto che riguardavano ingenti somme di denaro (anche oltre otto milioni di euro) effettuate da società (le cosiddette “cartiere”, ovvero fittizie che producono solo fatture false) di piccole dimensioni. Gli accertamenti della Polizia e della Guardia di Finanza hanno dimostrato che: sono stati sottratti all’Erario (tra evasione Iva e mancate dichiarazioni di redditi) oltre 11 milioni di euro; sono stati ottenuti indebiti sgravi fiscali per circa 19 milioni di euro; sono stati percepiti indebiti contributi europei per circa 11 milioni di euro.
di P.C. |